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                  Recensione Indie - Bananarama  feat. Lee Ranaldo & Friends
                "Robert De Niro's waiting", il singolo trascinante  del trio di ex giovinette, è solo l'antipasto di una serata no-no-pity, l'ultima  tendenza newyorkese di recupero del trashpop in versione amareggiata e acida.  Lee Ranaldo seppellisce subito di decibel, ruggendo anni novanta, le tre ex  ragazze, che si dibattono producendosi in vocalizzi strozzati capaci di far  rimpiangere i tempi che furono, sulle basi ritmiche rubate alle mai rimpiante  Coconuts. Questa è roba che ti acchiappa lo stomaco e ti rapisce, sounds good,  è la musica dal basso, ogni posto ha la sua. Le voci, ancor più dei testi,  raccontano del destino di ex popstar dedite all'alcol e al sesso non protetto,  e viceversa, alle protezioni senza sesso, e locla'lla; le giugulari si gonfiano  e ricadono rugose, mentre la duecorde e mezzo del grande Lee le insegue su  scale cromatiche appartenenti ad altri tempi e culture, a iperboli onanistiche  di stampo bauhaus (non quei bauhaus, con buona pace del caro Peter). È  la musica, la tua musica ma è giusto che io la senta mia. "Na Na Hey Hey  Kiss Him Goodbye" è l'anticlimax: più le giugulari si gonfiano, più gli  applausi latitano, è il trionfo dell'estetica no-no-pity. Su "Hot line to  heaven" accorre Paul Hardcastle con campionamenti Commodore (e il signor  Hansen è sempre in debito: The Last Ninja, Wizball, lui, ben prima di egli!) a  sostenere la sezione ritmica dell'indimenticato Kid Creole, con smitragliamenti  corruschi e scorreggette protosoniche, scrotiche, che strappano non poche  lacrime di nostalgia alla cassiera. Non convince per nulla il fracasso dei  bonghi per lungo tempo apparso fuori contesto, ma il solito chitarrista in  dieta perenne in piena estasi da esibizione che offre costantemente mezza  coscia e mezzo culo al pubblico, è da amare. Se gli altri brani avessero il  sessanta percento di quell’afrodisiaco non ci sarebbe da chiedere null’altro.  Il Vov scorre a fiumi (passi il nisba al fumo ma tu non puoi entrare col  bicchierozzo in un concerto equivale a giocare alla roulette russa col  caricatore pieno a tappo), la commozione è tangibile: l'età media in questo  scempio è davvero diciannove anni, come paventato da Hardcastle anni addietro;  ma il proprietario del pub ha portato il figlio appena nato e un'ampia schiera  di cuginetti coevi, e qualcosa nel calcolo di cui sopra puzza di losco, di  sentimento pilotato. Negli encore, peraltro non esattamente richiesti, la guest  star Cristina D'Avena si presenta sul palco con i suoi amici in tivù e tutti  insieme intonano un pout-pourri di "Perdere l'amore", "Ehi  musino", "Tu fai schifo sempre" e "La glaciazione" dei  Subsonica, no di certo originali ma enormi musicisti tra i quali (solo)  esteticamente pecca il bassista in look fuori look. E Ranaldo compie l'atto  dovuto imbracciando stavolta un corrusco khalasnikov, le cui note sussultorie  (complice un incongruo wha wha) trucidano la parte della platea non ancora  uccisa dalla musica e dai peti ripetuti dell'ottantenne lead singer (la  brunetta). È il non non-nontrionfo, sarebbe bello se ci fosse qualcuno a  poterlo raccontare. That's Napalm, baby.
                
                
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