HOME      GUESTBOOK      CHAT      NEWSLETTER      REDAZIONE                CONTATTI
 il progetto      gallery      recensioni      interviste      video      audio      concerti      rubriche
dedicato a Umberto



Recensioni
Album

 
MANIC STREET PREACHERS
Journal for Plague Lovers
Kitchenware Records - 2009

di Giuseppe Ciotta

 

Gennaio ‘95: Richey Edwards (chitarrista) consegna a Nicky Wire (bassista e, con lui, immagine dei Manic Street Preachers) un plico con testi e idee per il futuro. Questo nonostante Richey avesse già scritto e registrato parte di quello che poi sarebbe divenuto Everything Must Go, sofferto 2° capolavoro dei gallesi, dopo il monumentale The Holy Bible del ’94. La cosa non preoccupò Nicky, ma col senno di poi…

Un mese dopo, infatti, il chitarrista scomparirà in una fredda mattina londinese, uscendo dal suo albergo senza dire nulla e abbandonando l’auto sul ciglio di un fiume noto per i suicidi. Scotland Yard - non avendone rinvenuto il corpo - non lo ha ancora dichiarato morto.

Continuando a versare alla famiglia Edwards un quarto dei loro guadagni - come se il compagno non se ne fosse mai andato - i tre rimasti sfidarono il destino, almeno fino a This Is My Truth… del ’99, l’album della consacrazione di massa. Dopo, una serie di lavori coraggiosi, nulla più.
Oggi, invece, ecco quello che viene salutato come il 3° vertice creativo della band. Il motivo? Negli ultimi anni il gruppo ha lavorato al materiale che Richey gli aveva lasciato, tirandone fuori 13 brani capaci di dire tutto in 3 minuti. Dalla batteria di Sean Moore su Peeled Apples, riconosciamo la mano di Mr. Analogic Steve Albini in regia: lo spazio fra le trame musicali - ottenuto sfruttando i riverberi naturali - rivitalizza il sound della band. Jackie Collins… è il 1° singolo: ironia dolceamara, fin dal titolo. Lei, infatti, è una nota autrice di romanzi rosa. Qui Richey smonta il perbenistico concetto di fedeltà di coppia, quando è dogmaticamente basato sull’osservanza religiosa. Me and Stephen Hawking esorcizza la clonazione, con simmetrie uomo/animale che richiamano George Orwell: la musica è movimentata da efficaci stop&go. This Joke Sport Severed ondeggia fra arpeggi suadenti e lirismo esistenzialista, fino a quando un arrangiamento d’archi old english ci conduce alla fine.

Ci si aspetterebbe qualche pezzo interlocutorio, invece si viene sopraffatti da un’intensità che rende il cuore dell’album un posto caldo. La title-track parte come i Cure più elettrici, per poi parlarci di Dio da un punto di vista vulnerabilmente umano; l’asciutta e dinamica She Bathed Herself… - con l’ugola del chitarrista/cantante James Dean Bradfield in evidenza - narra la fatica di preservare la purezza dei sentimenti; Facing Page… - tra acustiche e pianoforti - riprende un tema caro a Richey Edwards: l’amore a doppio taglio per la bellezza, così pervasivo da divenire pericoloso; con Marlon J. D. stavolta è il corpo ad essere sedotto dai Manics: impossibile non dimenarsi, con un tale gioiello da dancefloor!

Doors Closing Slowly è quasi sperimentale; All Is Vanity è un riff di chitarra ultracompresso, mentre le parole aprono ad una positività invincibile perchè semplice. Pretension/Repulsion è un gioco lirico-dadaista basato sull’opposizione degli aggettivi, con un brillante post-punk che ne asseconda l’immediatezza. Virginia State… è la melodia più bella, impreziosita da frasi scolpite nella pietra, dure polaroid di un ricovero di Richey. William’s Last Words suona come se i Velvet Underground venissero dai ninenties: le liriche ammiccano alla speranza e all’amicizia, come un affresco in cui tutti possiamo riconoscerci. Non a caso, è l’unico brano cantato da Nicky Wire, amico fraterno di Richey Edwards, che sul finire degli anni ‘80 aveva coinvolto nel gruppo, colpito dalle sue doti di paroliere e dal modo naif di suonare. Condivisero le prime uscite indipendenti e i tour scalcinati, finché la Sony non li prese sotto la sua ala, in un’epoca in cui le major - galvanizzate dal boom alternativo - elargivano contratti a band di cui ignoravano il background.

Ma il cd non si ferma: la ghost-track meno fantasma della storia - chitarristicamente il pezzo più riuscito - ci ricorda che Bradfield avrebbe potuto fare il guitar-hero, ma ha preferito il ruolo di uomo-squadra. Sono passati 46 minuti. Il fatto che questo sali-scendi emotivo rientri nella durata perfetta per un album rock è un’altra conferma della bontà dell’operazione, che avrebbe potuto uccidere il gruppo e gettarlo in pasta alla critica. Invece, ritroviamo una band di cui ci mancavano l’intelligenza e la classe tutta britannica: i Manics migliori ci avevano abituato a lavori senza riempitivi, come questo. Qui le parole contano quanto la musica - fino a determinarne il taglio emotivo - ma senza mai appesantirla, pur toccando argomenti scomodi che gran parte dei rockers non vogliono (o non possono) affrontare.

Qui c’è la fine magniloquenza di The Holy Bible, la struggente sensibilità di Everything Must Go, ma soprattutto c’è qualcosa che suona del tutto nuova: la grazia di un gruppo che ha reso onore a se stesso e al suo membro più illustre, immortalando le sue ultime parole in canzoni senza tempo.

 

Official Website
My Space

 

Commenta l'articolo sul GUESTBOOK

TORNA ALL'ELENCO RECENSIONI

 

   

 

 
Rumori Sound System - © Copyright 2000