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dedicato a Umberto



Interviste

 
BANDABARDO'
mercoledì 16 ottobre 2002

di Tiziana Nicolosi

T.N. Con voi sembra aver preso corpo un’identità serenamente variopinta e italiana, una cultura indigena che facendo bricolage si spinge oltre i confini di nascita creando forme assolutamente nuove e locali…

B.In realtà si deve allargare il discorso a quelle che sono le nostre origini, abbiamo cercato sin dall’inizio di sommare le nostre culture, come ci hanno insegnato i grandi gruppi francesi, i Manonegra, i Negres Verte…


T.N. …per questo in alcuni testi utilizzate il francese?

B. Sì, io vengo da lì, per ventun anni ho vissuto tra Belgio, Lussemburgo, Francia, sono nato con quella musica lì, quegli scrittori, quei poeti, credo che sia bello e giusto prendere il massimo che ognuno può dare senza piegare nessuno alle esigenze ad esempio del cantante o della canzone. La Bandabardò unisce il rock di due, il jazz di altri. Io sto da poco in Italia, da sette otto anni, la mia lingua madre è il francese, sia la Francia che l’Italia comunque hanno fatto sempre un’ottima musica. Soprattutto l’italiano è una lingua difficilissima da cantare, per cui se devi reggere un testo non puoi farlo facilmente come in inglese, dove ti odio e ti amo hanno la stessa intonazione. Noi siamo obbligati a far sì che la musica aiuti la canzone, che la colonna sonora musichi il testo. Stiamo arrivando al seicentesimo concerto e ciò che vogliamo, che ci piace, è che la gente canti, che ci regali emozioni.

 

T.N. Il vostro crescere non rischia di distanziarvi troppo dal contatto diretto con la festa a cui tutti siamo invitati?

B. All’inizio questa è stata una nostra paura, quella di diventare troppo grandi per riuscire a mantenere la stessa atmosfera. E’ chiaro che per noi è più difficile il grande spazio. Quando ci troviamo ventimila persone davanti non è facile coinvolgerle tutte, però funziona anche lì, perché evidentemente chi viene a vedere la Bandabardò ha capito che quello è il giochino, che va a una grande cantata generale. Nessuno si sente escluso, anche se sei a parecchi metri di distanza da noi, hai comunque tanta gente intorno con cui far festa.

 

T.N. …l’importante, quindi, è mantenere questa forza e le transenne scompaiono…

B. …è perché suoniamo, non lo facciamo per imporre messaggi, per imporre noi, ma… sono parole grandi… lo facciamo per unire, per sentire questa unione. Andare a un concerto per noi che siamo musicisti, ma che la musica l’ascoltiamo pure, è una cosa bellissima, con cui ti rigeneri, prendi benzina.

 

T.N. Nella fase creativa questo pensiero della condivisione viene prima, dopo o durante la composizione?

B. Noi sappiamo fare questa musica, ci viene naturale, non ci obblighiamo a fare in modo che i ritornelli siano cantabili. Io vengo dall’equivalente di un De André in Francia, di un Battisti, che non hanno eguali perché sono enormi però anche in Francia ci sono artisti che hanno fatto cantare milioni di persone perché le loro parole entrano dritte in testa o gruppi che non sono stati esportati perché troppo francofoni, gente che ha fatto questo mestiere senza presunzione, diversamente dagli anglosassoni che arrivano per far sentire che sono gli artisti, che lanciano i messaggi, con il loro look… In Francia questo non esiste, ti danno di matto se sali sul palco con tali pretese. Il musicista lì è al servizio di, se nessuno partecipa non funziona.

 

T.N. E’ chiaro che soffriamo per la maggiore di un sovraccarico metropolitano, nei vostri pezzi non sono solo i vagabondi a riscattare con la loro libertà il prezzo del loro rifiuto… Credete sia un urlo comune, espiatorio, quello che coinvolge tutti in Ubriaco canta amore?

B. La forza di quel pezzo sono convinto che stia nel farti sentire individuo, ognuno si sente felice anche solo per il fatto di essere innamorato, pure se non è ricambiato, magari la donna che amo neanche lo sa, ma l’innamoramento ti da un’energia pulita, una fede nella vita che è incredibile. Tutti coloro che ascoltano la canzone si sentono coinvolti in prima persona, non è una canzone di gruppo… Io sono per strada, sono un nero, tanto siamo tutti vagabondi…

 

T.N. Infatti ..e urla contro il vento "io sono più contento".. è quasi un atto di imposizione, di cui ognuno sente l’esigenza

B. Sai che la frase ubriaco canta amore alle persiane è stata scritta da un grande poeta? Dino Campana, che ha avuto una storia da romanzo, ma purtroppo è vera. Era considerato lo scemo del villaggio, era poeta, dunque un pazzo, un reietto. Gli hanno fatto l’elettroshock, lo hanno chiuso in nosocomio, ha scritto una raccolta di poesie dove ci sono frase sparse, di una bellezza…

 

T.N. …L’amore balena sempre…

B. E’ la prima cosa al mondo, sfido chiunque a dirmi che non è così. Se una persona mi dice che prima vengono il lavoro, la produzione, l’accumulo di oggetti, io personalmente la guardo come uno che non ha capito nulla della vita. Abbiamo scritto Sette sono i re proprio per questo motivo, tutti si affannano a comandare, a essere più forti del proprio vicino, a possedere più simboli, magari poi tornano a casa e hanno una moglie che non amano, figlioli con cui non hanno relazioni. Basta aprire un giornale, continui eccidi in famiglia…

 

T.N. …manca l’amore?

B. Sì, la gente dovrebbe tornare all’affetto puro, all’abbraccio, al guardarsi negli occhi. Non vedo che futuro possa avere l’umanità senza queste cose. E dato che la maggior parte delle persone crede ancora in tutto ciò la forza dei vagabondi sta proprio nel grande mondo che hanno.

 

T.N. Tu hai trovato nel tuo lavoro un mezzo per esprimere e ricevere questo amore…

B. E’ così. La musica è anche espressione. La Bandabardò è fatta di cinque timidissimi, me compreso. La musica ci fa esistere.

 

T.N. Prevale qualcuno nell’impostazione stilistica dei pezzi?

B. Sempre meno. Ho iniziato io a scrivere perché ero quello che aveva le idee più chiare su cosa fare, e ho coinvolto gli altri. L’ultimo disco, con mia enorme gioia, è stato scritto da me e dal chitarrista Finaz, bravissimo. Io spero di poter lavorare con tutti, in equilibrio, perché in questo si realizza la vera espressione di un gruppo. Per ora siamo già a un buon livello, io scrivo tutti i testi, musichiamo in due e poi ognuno propone degli arrangiamenti, che magari cambiano il testo, l’uso del basso in un certo modo, basso e contrabbasso…

 

T.N. L’ultimo disco l’avete registrato in un luogo poetico…

B. Per la prima volta in vita nostra è stato in un posto bello, siamo stati benissimo, abbiamo messo fantasia, immaginazione, sino al mixaggio.

 

T.N. Cos’è per te il nomadismo?

B. Mi piace da morire, mi sta stretto rimanere fermo, ho bisogno di conoscere un posto, di organizzarmelo, di sentirne il profumo, di capire che effetto fa una canzone lì. Quando giriamo in furgone è stupendo, ogni giorno è un guardare con meraviglia o anche con bruttezza quello che incontri, è un far lavorare la testa, anche perché avendo vissuto all’estero ho percepito Firenze come una città splendida ma non mia e caratterizzata da una cultura sola, mentre in Lussemburgo sono cresciuto in mezzo a tutti i ragazzi delle comunità europee. C’è bisogno di linguaggi differenti…

 

 

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